Se mi interrogo sul “mio” Paolo VI, ritrovo, da una parte, qualche ricordo diretto (invero pochi ma significativi: terminavo gli studi liceali quando Giovanni Battista Montini chiudeva la sua esistenza terrena), e, dall’altra, il pieno convincimento della attualità del suo insegnamento e della sua opera.
Tre i ricordi: uno particolare, l’altro generale, il terzo di profondità umana e religiosa. Il primo è di abitudine domestica. Si tratta di quando, adolescente, assistevo da casa alla benedizione urbi et orbi del Papa bresciano, trasmessa in televisione (bianco e nero), scandita dalla sua voce, di pacatezza e metro inconfondibili. Farsi il segno della croce avanti al successore di Pietro era, al contempo, espressione di unità familiare e di partecipazione ad un mistero universale. Il secondo ricordo è legato al contesto storico in cui stavo crescendo. Erano gli anni ‘70 e si avvertiva nettamente l’assedio che tanta cultura, più laicista che laica, rivolgeva alla Chiesa e ad un Papa che, nonostante i turbinii culturali, sociali e politici, perseverava nella difesa delle ragioni dell’uomo, della vita, della salvezza. Ne emergeva il pastore votato al servizio della verità, incoercibile agli interessi ideologici. Il terzo è la struggente testimonianza dell’amicizia che Papa Montini diede al tempo del rapimento e dell’omicidio di Aldo Moro – e della sua scorta -. Sento ancora vivida l’emozione della preghiera del Papa ai funerali dell’amico: “chi può ascoltare il nostro lamento, se non ancora Tu, o Dio della vita e della morte? Tu non hai esaudito la nostra supplica per la incolumità di Aldo Moro, di questo Uomo buono, mite, saggio, innocente ed amico; ma Tu, o Signore, non hai abbandonato il suo spirito immortale, segnato dalla Fede nel Cristo, che è la risurrezione e la vita. Per lui, per lui”. Un grido umano e santo, di dolore e speranza insieme, che incarnava nel dramma del momento la docilità alla Provvidenza.
Il “mio” Paolo VI è oggi anche la percezione della sua dirompente modernità. Darne conto è una responsabilità che compete ad ogni credente nei confronti di un pastore della Chiesa universale in via di canonizzazione, ma ad un bresciano forse di più, perché è erede del tessuto di storia e di fede che ha generato Paolo VI ed è chiamato a darne degna continuità. Invero, valgono all’oggi i fondamentali di quella “linea montiniana” che Paolo VI ha saputo esprimere, quale chiave di lettura del reale e modalità di azione, con alcuni precisi caratteri. Si tratta del discernimento come metodo, del puntare sempre all’integralità dell’uomo senza esaurirsi nel dettaglio; si tratta del dialogo e dell’incontro come stile permanente e inesauribile; si tratta del coraggio di passare i confini, dell’osare confidando nella dimensione spirituale, del tenere lo sguardo attento alle coscienze. Una “linea montiniana” che è portatrice ancora di carica, per il fascino e le potenzialità che i giovani riscoprono quando posti di fronte a Paolo VI maestro, testimone e pastore, riuscendo a trarre tuttora alimento e confronto da un vero uomo di Dio.
Michele Bonetti