Se si osserva la storia dei rapporti tra il cristianesimo e le altre religioni, si rileva che essa è stata in molte occasioni, con maggiore o minore asprezza, conflittuale. Questa situazione di conflitto è durata per molti secoli; solo nel Novecento le cose cominciarono a cambiare. Subito dopo la seconda guerra mondiale, con i “Dieci punti di Seelisberg” (1947), iniziò a verificarsi, nei rapporti tra ebrei e cristiani, una svolta che in pochi anni avrebbe portato a un intenso dialogo tra le due religioni: per merito di J. Isaac, da parte ebraica, e di J. Maritain e Ch. Journet, da parte cattolica. Contemporaneamente, studiosi come A. Asìn Palacios e, soprattutto, L. Massignon, tra il 1930 e il 1950, presentarono in una luce del tutto nuova l’islàm e insistettero sulla necessità e l’opportunità di un rapporto dialogico col mondo musulmano. Negli stessi anni, numerosi studiosi cattolici misero in luce i valori dell’induismo e alcuni monaci benedettini fondarono in India monasteri benedettini, dediti alla preghiera contemplativa in uno stile di vita povera e penitente, proprio dei sannyasin. Così, senza che se ne avesse subito piena consapevolezza, nel mondo cristiano è cresciuta la coscienza della inopportunità dell’opposizione verso le altre religioni e, parallelamente, l’apertura prima alla simpatia e poi al dialogo con esse.
La chiara formulazione di tale nuovo atteggiamento si ebbe con la pubblicazione (6 agosto 1964) dell’enciclica Ecclesiam suam: Paolo VI osservava che la chiesa dev’essere pronta “a sostenere il dialogo (colloquium) con tutti gli uomini di buona volontà, dentro e fuori l’ambito suo proprio” (AAS 56 [1964] 649). Il secondo cerchio del dialogo comprendeva gli uomini “che adorano il Dio unico e sommo, il Dio che anche noi adoriamo”, cioè gli ebrei e i musulmani, e poi “anche i seguaci delle grandi religioni afrodisiatiche” (ivi, 654 s). Il Papa precisava che “per dovere di lealtà, noi dobbiamo manifestare la nostra persuasione che vi è un’unica, vera religione, quella cristiana, e la speranza che tutti i cercatori e adorati di Dio ne riconoscano la verità”; tuttavia “non vogliamo rifiutare il nostro rispettoso riconoscimento ai valori spirituali e morali delle varie confessioni religiose non cristiane e siamo disposti al dialogo, disposti anche a prendere l’iniziativa di un dialogo su ideali comuni come la promozione e la difesa della libertà religiosa, della fratellanza umana, della cultura, del benessere sociale e dell’ordine civile”.
Una più forte e chiara spinta al dialogo con le religioni non cristiane fu data dal Concilio Vaticano II. Esso pose il fondamento del dialogo, da una parte affermando che lo Spirito Santo agisce, oltre i confini delle Chiesa visibile, in tutti gli uomini e le donne e offre a tutti “nel modo che Dio conosce la possibilità di venire a contatto col mistero pasquale”e, dunque, di essere raggiunti dalla grazia salvatrice di Cristo; dall’altra, riconoscendo “elementi di verità e di grazia”non solo nella vita individuale dei seguaci di altre religioni, ma anche in alcuni elementi di tali tradizioni religiose. “La Chiesa cattolica-si diceva nella Dichiarazione Nostra aetate (28 ottobre 1965) – nulla rigetta di ciò che è vero e santo in queste religioni”, poiché “riflettono un raggio della verità che illumina tutti gli uomini”: perciò “esorta i suoi figli, affinché con prudenza e carità, per mezzo del dialogo e della collaborazione con i seguaci delle altre religioni, sempre rendendo testimonianza alla fede e alla vita cristiana, riconoscano, conservino e facciano progredire i valori spirituali, morali e socio-culturali che si trovano in essi”. La Chiesa invitava così i cristiani a improntare le loro relazioni con i non cristiani “a un dialogo sincero e paziente”, per conoscere “quali ricchezze di Dio nella sua munificenza ha dato ai popoli”; però, nello stesso tempo, li invitava a “cercare di illuminare queste ricchezze alla luce del Vangelo”
Il problema che si pose subito dopo il Concilio fu quello del rapporto tra la missione della Chiesa e il dialogo interreligioso: la missione della Chiesa è indubbiamente l’evangelizzazione? Se ne fa parte, può, almeno in certi casi, sostituirsi all’annuncio diretto e specifico del Vangelo? Se non ne fa parte, che senso e che compito esso ha nella missione della Chiesa? In altre, parole, il dialogo interreligioso è già in se stesso una forma di evangelizzazione oppure è solo un mezzo per la proclamazione del Vangelo, e dunque ha un senso solo strumentale? In realtà il problema era quello del significato e dell’estensione da attribuire al termine “evangelizzazione”. Questa doveva essere intesa in senso stretto, cioè di proclamazione della Buona Notizia di salvezza in Gesù Cristo agli uomini che non lo conoscono allo scopo di portarli a credere in lui e a renderli partecipi della sua grazia? Oppure poteva essere allargata, in modo che vi rientrasse anche il dialogo interreligioso? La questione fu dibattuta per lunghi anni. Il Sinodo dei vescovi del 1974, che aveva come tema l’Evangelizzazione del mondo moderno, si chiuse con una dichiarazione abbastanza vaga sulla questione. Seguì, nel 1975, la pubblicazione dell’Esortazione apostolica Evangelii nuntiandi. Del dialogo interreligioso si parlava poco; ad ogni modo, esso non rientrava nella missione evangelizzatrice della Chiesa. A sua volta Giovanni Paolo II, parlando da Manila ai popoli dell’Asia nel 1981, disse che la Chiesa oggi “fa l’esperienza di un profondo bisogno di entrare in contatto e di dialogare con tutte queste religioni. Tutti i cristiani devono impegnarsi a entrare in dialogo con i credenti di tutte le religioni per promuovere una mutua comprensione e collaborazione, per rafforzare i valori morali, per rendere lode a Dio in tutta la creazione”. Il maggiore approfondimento del rapporto tra evangelizzazione e dialogo interreligioso si ebbe in due documenti del Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso. Nel primo – L’atteggiamento della Chiesa di fronte ai seguaci di altre religioni. Riflessioni e orientamenti su dialogo e missione (1984) – si rilevava che la missione evangelizzatrice della Chiesa “è una realtà unitaria, ma complessa e articolata”. Ne indicava poi i principali elementi: presenza e testimonianza; impegno per la promozione sociale e per la liberazione dell’uomo; vita liturgica, preghiera e contemplazione; dialogo interreligioso; e infine annuncio e catechesi. Il documento aggiungeva poi che l’annuncio e il dialogo sono ambedue considerati come elementi componenti e forme autentiche dell’unica missione evangelizzatrice della Chiesa, poiché ambedue sono orientati verso la comunicazione della verità salvifica. Il secondo documento, pubblicato nel 25^ della Dichiarazione Nostra aetate, il 19 maggio 1991, insieme con la Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli, intendeva fornire alcuni chiarimenti sulle caratteristiche del “dialogo”e dall’”annuncio” e sul loro reciproco rapporto. Infatti, il titolo del documento era Dialogo e Annuncio. Riflessioni e orientamenti sul dialogo interreligioso e l’annuncio del Vangelo di Gesù Cristo (d’ora in poi DeA) (civ. Catt. 1991 III 51-80).
Il DeA rilevava che “in alcuni luoghi la pratica del dialogo è ancora incerta (n.4b)mentre la pratica di esso “suscita alcuni problemi nella mente di molti”. Quali problemi? “Vi sono coloro che sembrerebbero pensare, erroneamente, che nella missione attuale della Chiesa il dialogo dovrebbe semplicemente sostituire l’annuncio. All’estremo apposto, alcuni non riescono a vedere il valore del dialogo interreligioso ha assunto una tale importanza, l’annuncio del messaggio evangelico ha perso la sua urgenza? Lo sforzo che tende a condurre le persone nella comunità della Chiesa è forse diventato secondario o addirittura superfluo?”
Prima di rispondere a questi problemi, il DeA chiariva i termini di evangelizzazione, dialogo e annuncio. Evangelizzazione dev’essere intesa in senso lato, in quanto comprende tutte quelle attività che hanno un rapporto con l’annuncio. “La Chiesa, infatti, svolge la sua missione di evangelizzazione attraverso diverse attività, una delle quali è precisamente il dialogo”. Questo può essere inteso in vari modi: ”In primo luogo, a livello propriamente umano, significa comunicazione reciproca, per raggiungere un fine comune o, a un livello più profondo, una comunione interpersonale. In secondo luogo, il dialogo può essere considerato come un atteggiamento di rispetto e di amicizia, che penetra o dovrebbe penetrare in tutte le attività che costituiscono la missione evangelizzatrice della Chiesa. Ciò può essere chiamato-a ragione- “Lo spirito del dialogo”. In terzo luogo, in un contesto di pluralismo religioso, il dialogo significa l’insieme dei rapporti interreligiosi, positivi e costruttivi, con persone e comunità di altre fedi per una mutua conoscenza e un reciproco arricchimento, nell’obbedienza alla verità e nel rispetto della libertà. Ciò include sia la testimonianza che la scoperta delle rispettive convinzioni religiose. E’ in quest’ultima accezione che il presente documento (il DeA) utilizza il termine dialogo come uno degli elementi integranti della missione evangelizzatrice della Chiesa”
Invece, “all’annuncio è la comunicazione del messaggio evangelico, il mistero di salvezza realizzato da Dio per tutti in Gesù Cristo, con la potenza dello Spirito Santo. E’ un invito a un impegno di fede in Gesù Cristo, un invito a entrare mediante il battesimo nella comunità dei credenti che è la Chiesa”. Esso è “il fondamento, il centro e il vertice dell’evangelizzazione”.
I problemi che ora dobbiamo affrontare sono essenzialmente due. Il primo riguarda il dialogo interreligioso: in che cosa consiste, in quali forme si esplica, quali ne sono le condizioni, quale ne è lo spirito e quale ne è il fine? Il secondo riguarda il rapporto esistente tra il dialogo e annuncio: il dialogo è annuncio? Può sostituire l’annuncio? E’ una preparazione all’annuncio? Oppure ha un valore in se stesso e quindi entra a far parte della missione evangelizzatrice della Chiesa, anche se non predispone e non prepara direttamente all’annuncio? Il “dialogo” consiste essenzialmente nell’incontro, amichevole e sincero, tra i due o più persone di diverso orientamento ideale e spirituale, che desiderano parlare tra di loro sia per comunicarsi ciò che ognuno pensa, sia per conoscersi vicendevolmente e in tal modo approfondire tanto le convergenze quanto le divergenze di pensiero che eventualmente possono esistere tra di loro. Il dialogo dunque non è uno “scontro”, nel quale ognuno tende a criticare l’altro e far prevalere la propria opinione; non è una “polemica” tra due avversari, fatta per mostrare che la propria opinione è valida mentre quella dell’avversario o è infondata o è falsa.
Perciò un dialogo autentico è possibile solo ad alcune condizioni. La prima: che tra coloro che dialogano ci sia un atteggiamento preliminare di rispetto per l’altro e di fiducia, basata sulla convinzione della sua sincerità e buona fede. Non vi è cioè possibilità di dialogo se coloro che vogliono dialogare non si sentono vicendevolmente rispettati e se, nell’uno o nell’altro, sorge il dubbio che si voglia approfittare del dialogo per fini che non sono quelli per cui si dialoga. La seconda: che coloro che dialogano ritengono che nelle posizioni dell’altro ci siano verità e valori sui quali ci si possa confrontare e che eventualmente possano arricchire e completare la propria posizione. Anche se non la fede in quanto il dono, E’ evidente infatti che, se si ritiene che le posizioni dell’altro siano dl tutto false o incompatibili con le proprie, può esserci tutt’altro, siano del tutto false o incompatibili con le proprie, può esserci tutt’al più il tentativo di portare l’altro dalla propria parte, ma mai un vero dialogo. Questo infatti è essenzialmente un “dare e ricevere”. La terza: che in coloro che dialogano ci sia la disponibilità a mettersi in questione, a rivedere le proprie opinioni personali nel caso che esse siano contrastanti con la verità che può emergere dal dialogo. Questa condizione comporta particolari difficoltà e pone gravi problemi, anche di coscienza, ma è la prova della sincerità del dialogo. La quarta: che coloro che dialogano siano saldi nelle loro convinzioni e le espongono nella loro integrità, senza falsi irenismi, ma nel pieno rispetto dell’identità di ciascuno. Eventuali accordi e convergenze non possono essere preliminari al dialogo, ma devono esserne il risultato.
Una delle forme del dialogo come strumento di mutua conoscenza tra uomini diversi, e tuttavia destinati a comprendersi, a parlarsi, a “convivere” nella pace e a “collaborare” per il bene di tutti, è il dialogo interreligioso, cioè tra uomini che appartengono a religioni diverse, in particolare tra i cristiani e i seguaci delle grandi religioni, quali l’ebraismo, l’islàm, l’induismo, il buddismo nelle sue molteplici forme. Intenso in senso cristiano, il dialogo interreligioso non rappresenta solo un metodo e un mezzo per conoscenza, da parte dei cristiani, delle altre religioni e, da parte dei non cristiani, del cristianesimo, né ha sola funzione di stabilire rapporti di amicizia e di collaborazione tra cristiani e non cristiani. E’ detto nel DeA (n’40): “Il dialogo interreligioso non tende semplicemente a una mutua comprensione e a rapporti amichevoli. Raggiunge un livello assai più profondo, che è quello dello spirito, dove lo scambio e la condivisione consistono in una testimonianza mutua del proprio credo e in una scoperta comune delle rispettive convinzioni religiose. Mediante il dialogo, i cristiani e gli altri sono invitati ad approfondire il loro impegno religioso e a rispondere, con crescente sincerità, all’appello personale di Dio e al dono gratuito che Egli fa di sé stesso, dono che passa sempre, come proclama la nostra fede, attraverso la mediazione di Gesù Cristo e l’opera del suo Spirito”. Perciò lo scopo del dialogo interreligioso è “una conversione più profonda di tutti verso Dio”. In questo processo di conversione “può nascere la decisione di lasciare una situazione spirituale o religiosa anteriore per dirigersi verso un’altra”. Infatti “il dialogo sincero suppone da un lato di accettare reciprocamente l’esistenza delle differenze, o anche delle contraddizioni, e dall’altra di rispettare la libera decisione che le persone prendono in conformità con la propria coscienza” (DeA n.41).
E’ chiaro però che il dialogo interreligioso non è una tattica messa in opera dalla Chiesa per ottenere conversioni al cristianesimo. Esso infatti comporta “la testimonianza reciproca per un comune progresso nel cammino di ricerca e di esperienza religiosa e, al tempo steso, per il superamento di pregiudizi, intolleranze e malintesi”; perciò “tende alla purificazione e conversione interiore”. “Con esso la Chiesa intende scoprire i “germi del Verbo”, i “raggi della verità che illumina tutti gli uomini”, germi e raggi che si trovano nelle persone e nelle tradizioni religiose dell’umanità”. In realtà “le altre religioni costituiscono per la chiesa una sfida positiva: la stimolano, infatti, sia a scoprire e riconoscere i segni della presenza di Cristo e dell’azione dello Spirito, sia ad approfondire la propria identità e a testimoniare l’integrità della Rivelazione, di cui è depositata per il bene di tutti “ (Redemptoris missiò, n.56). Perciò la disposizione fondamentale on cui si deve andare al dialogo interreligioso è l’apertura verso l’accoglienza dell’altro: un’apertura e un’accoglienza non certo ingenue, portate cioè, per uno spirito falsamente irenico, a sottovalutare e a tacere le differenze e anche le contraddizioni che possono esistere tra il cristianesimo e le altre religioni, ma vigilanti e, nello stesso tempo, fiduciose, senza rinunciare a un confronto positivo con esse (cfr Redemptor bominis, n.6, e Dominum et Vivificantem, n. 53). In realtà i cristiani, pur “rimanendo saldi nella loro fede che in Gesù Cristo, l’unico mediatore tra Dio e l’uomo, è stata data loro pienezza della rivelazione, non devono dimenticare che Dio si è manifestato in qualche modo ai seguaci delle altre tradizioni religiose. Di conseguenza sono chiamati a considerare le convinzioni e i valori degli altri con apertura” (DeA,n.48) e, insieme, con “profondo rispetto per tutto ciò che nell’uomo ha operato lo Spirito Santo ce soffia dove vuole” (Redemptoris missiò,n. 56). Se quindi, nel dialogo interreligioso, i cristiani possono dare molo ai seguaci delle altre religioni, possono anche ricevere molto da essi ee, in tal modo, arricchire e purificare la propria fede. Infatti “la pienezza della verità ricevuta in Gesù Cristo non dà ai singoli cristiani la garanzia di aver assimilato pienamente tale verità. In ultima analisi, la verità non è qualcosa che possediamo, ma una Persona da cui dobbiamo farci possedere. Si tratta quindi di un processo senza fine. Pur mantenendo intatta la loro identità, i cristiani devono essere disposti a imparare a ricevere dagli altri e per loro tramite i valori positivi delle loro tradizioni. Così, attraverso il dialogo, possono essere condotti a vincere i pregiudizi inveterati, a rivedere le idee preconcette e ad accettare a volte che la comprensione della loro fede sia purificata”(DeA, n.49). Perché questo avvenga, il dialogo interreligioso dev’essere sincero. Ciò comporta due cose. La prima: che ogni partecipante al dialogo si presenti per quello che è. Per il cristiano questo significa che egli deve presentare la propria fede cristiana nella sua integrità, senza tacere quei punti che possono essere, per gli altri, spiacevoli o inaccettabili. La seconda: che i partecipanti al dialogo accettino di essere messi in questione. Per i cristiani, ciò significa che, da una parte, essi devono accettare di essere soggetti a critiche per il modo in cui hanno vissuto e vivono la loro fede e per i loro comportamenti nei riguardi delle altre religioni e, dall’altra, devono rivelare con franchezza, ma senza aggressività e senza spirito polemico, come potrebbe avvenire, gli aspetti negativi delle altre religioni. Poiché, se i cristiani sono convinti che le religioni non cristiane contengono alti valori religiosi e morali, frutto dell’azione della grazia di Cristo effusa nei cuori dei non cristiani dalla grazia dello Spirito Santo, non possono dimenticare che non tutto, nelle tradizioni religiose non cristiane, è frutto della Grazia. Osserva il DeA (nn. 31-32): “Il peccato agisce nel mondo e quindi le tradizioni religiose, malgrado i loro valori positivi, riflettono anche i limiti dello spirito umano che a volte è incline a scegliere il male. Un approccio aperto e positivo alle altre tradizioni religiose non autorizza quindi a chiudere gli occhi sulle contraddizioni che possono esistere tra di esse e la rivelazione cristiana. Là dove è necessario, bisogna riconoscere che esiste incompatibilità tra certi elementi essenziali della fede cristiana e alcuni aspetti di queste tradizioni. Ciò significa quindi che,pur entrando con uno spirito aperto nel dialogo con i membri delle altre tradizioni religiose, i cristiani possono anche porre loro delle questioni, in uno spirito pacifico, sul contenuto del loro credo”.
E’ evidente che il dialogo interreligioso, inteso nel senso che abbiamo detto, comporta gravi difficoltà. Già in ogni dialogo, sul piano puramente umano, non è facile. Ancora più difficile è il dialogo interreligioso: sia perché tocca una sfera dello spirito umano particolarmente sensibile e suscettibile di reazioni emotive non facilmente controllabili, sia perché le differenze culturali e di linguaggio rendono difficile la reciproca comprensione, sia perché la conoscenza che si ha della religione dell’altro raramente è profonda, mentre assai spesso è superficiale, sia perché è molto difficile entrare nello spirito dell’altro e vedere le cose con i suoi occhi, sia infine perché può sempre aleggiare sul dialogo interreligioso un’aura di sospetto e di diffidenza, in quanto, anche se si afferma il contrario, esso può essere visto come una tattica per convertire i non cristiani al cristianesimo.
Indubbiamente, se il dialogo si riduce a mettere in chiaro le posizioni dottrinali dei due gruppi partecipanti, esso non comporta gravi difficoltà. Ne è un esempio l’incontro che si è svolto recentemente a Kaohsiung (Taiwan, 31 luglio – 4 agosto 1995), patrocinato dal card. F. Arinze, presidente del Pontificio Consiglio per il Dialogo interreligioso, e dal venerabile Hsing Yun, gran maestro del monastero Fo Kuang Shan, sul tema “Buddismo e cristianesimo: convergenze e divergenze”. Ad esso hanno partecipato studiosi buddisti e cristiani, provenienti da diversi Paesi, i quali hanno riflettuto insieme su quattro temi: la condizione umana e il bisogno di liberazione; la realtà ultima è il nirvana; Buddha e Cristo; il distacco personale e l’impegno sociale. Nella Dichiarazione finale, che riporta le conclusioni dell’incontro, viene presentato con grande chiarezza ciò che sui quattro temi dicono tanto i buddisti quanto i cristiani, senza che ci sia un reale confronto tra le due posizioni, che sono messe l’una accanto all’altra. Alla fine la Dichiarazione auspica che, in un mondo lacerato dalle lotte e dalle divisioni, siano sempre di più le occasioni per sviluppare un dialogo vero e profondo, capace di “rafforzare l’impulso creativo per lavorare insieme, in un’amicizia interreligiosa autentica, per una maggiore unità tra popoli e le nazioni”.
Invece, se il dialogo interreligioso non si limita a esporre le posizioni di ognuno – ciò che del resto è assai utile, poiché la premessa necessaria per un confronto approfondito è la chiara conoscenza delle posizioni dell’altro -, ma si sforza, attraverso un confronto anche duro e critico, di giungere alla verità o almeno di crescere nella verità religiosa per giungere a un consenso comune anche soltanto su alcuni punti, esso diviene assai difficile, tanto che chi tenta d’interpretarlo può scoraggiarsi ritenendo inutile l’impresa. Inutilità che è solo apparente. “Occorre ricordare – avverte il DeA (nn. 53-54) – che l’impegno della Chiesa nel dialogo non dipende dal successo nel riuscire a raggiungere una comprensione e un arricchimento reciproci; nasce piuttosto dall’iniziativa di Dio che entra in dialogo con l’umanità e dall’esempio di Gesù Cristo, la cui vita, morte e risurrezione hanno dato al dialogo la sua ultima espressione . Inoltre gli ostacoli, anche se reali, non devono condurre a sottovalutare le possibilità del dialogo o a dimenticare i risultati finora ottenuti.Vi sono stati progressi nella reciproca comprensione e nella cooperazione attiva. Il dialogo ha avuto anche un impatto positivo sulla Chiesa stessa. Anche altre religioni sono state condotte attraverso il dialogo al rinnovamento e ad una maggiore apertura. Il dialogo religioso ha permesso alla Chiesa di condividere con altri i valori evangelici. E’ per questo che, malgrado le difficoltà, l’impegno della Chiesa nel dialogo resta fermo e irreversibile”.
In quali forme si può realizzare il dialogo interreligioso? Generalmente se ne indicano quattro:
il dialogo della vita, in virtù del quale i cristiani si sforzano di vivere in uno spirito di amicizia e di accoglienza, di apertura e di buon vicinato con gli appartenenti ad altre religioni, condividendo le loro gioie, le loro pene, i loro problemi e le loro preoccupazioni. In alcuni Paesi, particolarmente in quelli musulmani, oggi questo è l’unico dialogo possibile. Per tale dialogo, la Chiesa ritiene “indispensabile l’apporto dei laici, che con l’esempio della loro vita e con la propria azione possono favorire il miglioramento dei rapporti tra seguaci delle diverse religioni, mentre alcuni di loro potranno dare pure un contributo di ricerca e di studio”. Aggiunge in proposito Giovanni Paolo II: “Sapendo che non pochi missionari e comunità cristiane trovano nella via difficile e spesso incompresa del dialogo l’unica maniera di rendere sincera testimonianza a Cristo e generoso servizio all’uomo, desidero incoraggiarli a perseverare con fede e carità, anche là dove i loro sforzi non trovano accoglienza e risposta. Il dialogo è una via verso il regno e darà sicuramente i suoi frutti, anche se i tempi e i momenti sono riservati al Padre”.
b) il dialogo delle opere: esso si ha quando i cristiani e gli appartenenti alle altre religioni, in base a motivazioni esplicitamente religiose, collaborano in campo sociale ed economico per difendere e promuovere i diritti di libertà e di giustizia delle persone, specialmente quando tali diritti sono negati e calpestati dai “poteri forti”, politici, militari ed economici. Questa forma di dialogo è particolarmente importante in un mondo in cui i problemi della libertà, della giustizia e della pace sono diventati ”globali” e, dunque, giganteschi. Dall’altra parte le religioni hanno un forte potenziale di umanizzazione dei rapporti umani, rivelando spesso la capacità di renderli più giusti e fraterni, anche se può succedere che siano proprio le religioni – contro la loro natura profonda e per il cattivo uso che ne fa l’uomo – a fomentare l’odio tra i popoli e a giustificare situazioni d’ingiustizia. Perché ciò non avvenga devono essere gli uomini religiosi – anche contro i gruppi politici di appartenenza – a unirsi per collaborare per la giustizia, il benessere e la pace.
c) il dialogo dell’esperienza religiosa: in esso persone fortemente radicate nelle proprie tradizioni religiose condividono le loro ricchezze spirituali, per ciò che riguarda la propria esperienza di Dio o dell’Assoluto – che per un cristiano ha un senso ben preciso secondo le indicazioni della Sacra Scrittura e della Tradizione – nella preghiera contemplativa o nella meditazione, per ciò che attiene al senso della vita e della morte, del male e della sofferenza, della salvezza e della liberazione, e infine per ciò che concerne le vie per cercare Dio. Questa forma di dialogo è particolarmente difficile, perché richiederebbe non solo la simpatia e l’accoglienza verso l’alto, ma anche una capacità di condivisione a un livello più profondo. Anzi, alcuni ritengono che il dialogo dell’esperienza religiosa consista essenzialmente nel penetrare nello spirito di colui col quale si dialoga, nell’entrare nella sua esperienza religiosa per farla propria. Ora ci si può chiedere se e in quale misura sia possibile entrare nell’esperienza religiosa dell’altro e farla propria, conservando nello stesso tempo intatta la fede di appartenenza. La risposta non è né facile né scontata. Ciò significa che questa terza forma di dialogo interreligioso non può normalmente essere spinta fino in fondo, ma deve mantenersi a un livello di profondità e d’intensità compatibile con la normale possibilità di una persona di condividere l’esperienza religiosa dell’altra conservando integra la propria fede.
d) il dialogo degli scambi teologici: è quello tra esperti nella teologia delle diverse religioni, in cui si cerca di approfondire la comprensione delle rispettive religioni e di apprezzarne i valori religiosi e spirituali. Tale forma di dialogo non può essere attuata da tutti. Perché richiede una conoscenza approfondita non solo della propria religione, ma anche di quella di colui con cui si dialoga. Ora questi esperti non sono molti. A tale proposito si deve constatare che, se un numero rilevante di cristiani cerca di conoscere le altre tradizioni religiose, gli appartenenti a queste ultime sembrano assai meno interessati alla conoscenza del cristianesimo. Perciò questa forma di dialogo può essere utile ai cristiani per conoscere dall’interno le altre religioni, apprezzarne i valori e, grazie al confronto con esse, purificare e arricchire la propria esperienza religiosa; soprattutto può essere utile per scoprire le ricchezze spirituali che l’azione dello Spirito Santo ha disseminato nelle altre tradizioni religiose, talvolta solo in forma germinale e tali perciò da poter trovare la propria pienezza solo in Gesù Cristo, a cui quindi sono ordinate.Ma può essere utile anche ai non cristiani, che forse per la prima volta vengono a contatto col messaggio di Gesù, non contraffatto da pregiudizi e da polemiche. Si deve infatti tener presente che nel passato, anche recente, il cristianesimo e le altre religioni in certi casi si sono combattuti, e a volte anche in maniera assai aspra, ma non si sono parlati e tanto meno hanno fatto uno sforzo per conoscersi e apprezzarsi reciprocamente. E’ nata così una barriera di pregiudizi e di conoscenza erronee, che è molto difficile abbattere per potersi confrontare serenamente. Questa è la difficoltà che il dialogo teologico – specialmente quello tra cristiani e musulmani – oggi deve affrontare.
A questo punto sorge un delicato problema: il dialogo interreligioso può sostituire l’annuncio esplicito del Vangelo che, essendo un invito a convertirsi a Cristo e a far parte della Chiesa, e quindi ad abbandonare la propria religione, non solo suscita la violenta opposizione delle altre religioni, ma appare come una perdita della propria identità spirituale e nazionale? In altre parole, nella situazione attuale di “risveglio” dell’islàm, dell’induismo e del buddismo e di ripresa dello spirito nazionalistico, è opportuno che la Chiesa insista sul dialogo interreligioso, che è ben accettato dalle altre religioni, e ritenga che con esso la sua missione evangelizzatrice sia sufficientemente compiuta?Che, quindi, sia sufficiente per l’annuncio del Vangelo quella conoscenza della fede cristiana che si riesce a trasmettere per mezzo del dialogo interreligioso? Per comprendere la gravità del problema, si deve riflettere che, da una parte, l’annuncio esplicito dal Vangelo con il richiamo alla conversione incontra oggi opposizione e forme di rifiuto assai più forti che nel passato e, dall’altra, vale per oggi, come per ieri e per domani, il comando di Gesù ai suoi discepoli: “Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo ad ogni creatura”.
A questo problema, che angustia particolarmente i missionari e le Chiese dell’Africa e dell’Asia, Giovanni Paolo II ha risposto: “Nello stesso modo in cui il dialogo interreligioso è un elemento della missione della Chiesa, la proclamazione dell’opera salvifica di Dio in Gesù Cristo Nostro Signore ne è un altro.Non si tratta di scegliere l’uno e di ignorare o rigettare l’altro”. Nell’enciclica Redemptoris missio ha poi affermato che “il dialogo interreligioso fa parte della missione evangelizzatrice della Chiesa”, ma “non dispensa dall’evangelizzazione”, cioè dall’annuncio esplicito del mistero della salvezza che Dio ha compiuto in Gesù Cristo e a partecipare al quale tutti gli uomini devono essere chiamati.
In altre parole, il dialogo interreligioso ed evangelizzazione fanno parte dell’unica missione della Chiesa, ma non si identificano né sono interscambiabili, così che il dialogo possa sostituire l’evangelizzazione o renderla superflua. Perciò oggi la Chiesa, mentre sente la necessità d’impegnarsi nel dialogo interreligioso, sente con ancora più forza l’urgenza e la necessità , e anzi il dovere, di annunciare esplicitamente il Vangelo. Nel dialogo essa esercita “un ruolo profetico”: “Rendendo testimonianza ai valori del Vangelo, essa pone domande alle altre religioni”, che possono scoprire tali valori, mentre la Chiesa, per le domande che le altre religioni le pongono, può vedere i propri limiti e correggere le proprie deficienze.
Nell’evangelizzazione, verso cui il dialogo resta orientato dinamicamente, la Chiesa “tende a condurre le persone – che nel dialogo possono aver sentito il desiderio o il bisogno di conoscere meglio il Vangelo di Gesù – verso una conoscenza esplicita di ciò che Dio ha fatto per tutti, uomini e donne, in Gesù Cristo e invitarli ad essere discepoli di Gesù, col divenire membri della Chiesa”. In tal modo, tra dialogo interreligioso e annuncio esplicito del Vangelo non c’è identificazione né c’è strumentalizzazione del dialogo a favore dell’annuncio; c’è però un’intima connessione, in quanto il dialogo può far sorgere domande a cui può rispondere soltanto l’evangelizzazione.
Concludiamo col DeA, n. 82: ”Tutti i cristiani sono chiamati ad essere personalmente coinvolti in queste due vie per compiere l’unica missione della Chiesa, e cioè l’annuncio e il dialogo. La maniera in cui lo fanno dipenderà dalle circostanze e anche dal loro grado di preparazione. Devono tuttavia tener presente che il dialogo, come già è stato detto, non costituisce l’intera missione della Chiesa, che non può semplicemente sostituire l’annuncio, ma resta orientato verso l’annuncio in quanto in esso il processo dinamico della missione evangelizzatrice della Chiesa raggiunge il suo culmine e la sua pienezza. I cristiani impegnati nel dialogo hanno il dovere di rispondere alle attese dei loro partners sui contenuti della fede cristiana e di rendere testimonianza di questa fede quando sono chiamati a farlo. Per poterlo fare i cristiani devono approfondire la loro fede, purificare i loro atteggiamenti, chiarire il loro linguaggio, rendere il loro culto sempre più autentico”.
Civiltà Cattolica
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